Short Stories & Tales
[agosto 18, 2016]
LA GITA IN BARCA
Le
conseguenze provocate dall'abbandono, specie se questa forma di
distacco è avvenuta in tenera età, sono molteplici e si
ripercuotono impietosamente su tutta la vita di un individuo, sulla
qualità dei suoi rapporti con gli altri e con il mondo esterno.
Senso
di colpa e di disagio, inadeguatezza, dipendenza emotiva ed
affettiva, fragilità, bisogno continuo di manifestazioni di affetto
(reali o indotte), ansia, angoscia, depressione, solitudine sono solo
alcuni dei disturbi che colpiscono chi ha subìto un distacco, una
divisione, un allontanamento, una separazione forzata.
Riuscire
a ricondurre a quell'evento, a distanza di anni, gli episodi
salienti, caratteristici della propria esistenza, soprattutto quelli
strettamente correlati alla propria vita affettiva e sentimentale,
separandoli dagli altri che, al contrario, hanno vissuto e vivono di
vita propria, è un lavoro che può richiedere anni, a volte decenni.
Occorrono
consapevolezza e lucidità che solamente una profonda ricerca
introspettiva protratta nel tempo riesce a garantire.
Non
solo, è necessario il continuo confronto con gli altri, l'incessante
scambio di informazioni che un rapporto proattivo tra esseri umani
può assicurare, il coraggio di esporsi agli altri, di accettarne i
giudizi senza subirli, senza esserne condizionati passivamente.
La
rielaborazione dell'evento e la sua accettazione costituiscono il
passaggio necessario per il superamento del trauma che, seppur
indelebile, deve essere reso come un qualcosa al quale è possibile
sopravvivere.
Arrivare
a questo risultato è l'unico modo per relegare il trauma prodotto
dall'evento alla sfera del semplice ricordo che, in quanto tale,
appartiene ormai ad un passato immoto e lontano.
"Partiamo
al mattino. Il papà e la mamma mettono la barca in acqua. Io e Giò
stiamo seduti sui sassi a riva a guardare. Io seduto da una parte,
Giò seduta dall'altra. Papà sale, mamma ci fa salire, prima Giò
poi io. Prendiamo il mare. Arriviamo a una curva che il mare fa con
gli scogli. Per scendere alla spiaggia bisogna passare dal mare.
L’acqua è chiara, si vede la sabbia sul fondo. Papà getta
l’ancoretta. Mamma entra in acqua, l'acqua le arriva fin sopra la
pancia, papà le dà le borse con la roba da mangiare e da bere e lei
le tiene alte sull'acqua e le porta a riva. Poi la mamma ritorna.
Papà entra in acqua e prende Giò in braccio e poi la dà alla mamma
che la porta a riva. Papà mi chiama, mi dice “Pietro, scendi dalla
barca, buttati nelle mie braccia, buttati che ti prendo!”. Ho
paura. Non riesco a muovermi. Non riesco a muovermi dalla paura. Non
riesco a staccare le mani dal fianco della barca. “Forza, buttati
nelle mie braccia, non devi avere paura, ti prendo io, dài
buttati!”. Non posso. Non riesco a muovermi. Ho paura. “Pietro,
sei un fifone, dài buttati, guarda che ti lasciamo sulla barca!”.
Mamma dalla riva muove un braccio per dire “dài, Pietro, forza,
manchi solo tu!”. Non posso, non ci riesco, non riesco a buttarmi.
“Non ti butti? Va bene, vuol dire che ti lasciamo qui mentre noi ci
divertiamo sulla spiaggia. Sei un fifone!”. Non andare. Non andare,
per piacere. Non lasciarmi qui da solo. No, papà, non andare. Lo
vedo andare via e nuotare e arrivare alla spiaggia, adesso è vicino
alla mamma e a Giò. Io resto sulla barca. C’è un bel sole e
l’acqua è chiara, si vede la sabbia sul fondo. I raggi di sole
fanno luce sull’acqua e disegnano striscie di luce sulla sabbia sul
fondo. Ho il costumino rosso, i sandalini blu e il berrettino azzurro
da marinaio. Sto seduto sul fondo della barca. Guardo in giro, da una
parte e dall'altra, guardo se arriva qualcuno. Faccio la guardia alla
barca. Da qui vedo il papà e la mamma e Giò che giocano sulla
spiaggia. Non sono triste. Però, non capisco. Cosa vuol dire
“fifone”?"
[settembre 16, 2016]
IL BATTITO D'ALI DI UNA FARFALLA
Ho
incominciato a credere all'altra metà della mela quando ho
conosciuto Paco.
La
vita è fatta di incontri che solo apparentemente avvengono per caso,
le persone che spesso la fatalità ci manda incontro sono destinate a
svolgere un ruolo fondamentale nella nostra vita, quando non
addirittura a cambiare il corso della nostra esistenza ponendoci di
fronte ad interrogativi e a riflessioni nelle quali mai avremmo
pensato di intrattenerci. La funzione che noi svolgiamo in queste
situazioni è altrettanto importante di quella esercitata da questi
"messaggeri del fato", sta a noi infatti riuscire a
cogliere il significato, l'essenza della loro ambasciata e,
aggiungendoci un pizzico di inventiva da parte nostra, a trasformare
il loro messaggio in qualcosa di concreto e di tangibile.
Non
entrerò nei dettagli riguardanti le circostanze dell'incontro con
Paco, se da un lato esse sono state rocambolesche, quasi epiche (e
quindi degne di essere narrate), dall'altra l'atto del rivelarle,
anche solo in parte, potrebbe fornire elementi per risalire alla sua
identità e, dato il carattere personale, intimo della storia che mi
ha raccontato credo che il suo nome - il suo vero nome - debba
continuare ad essere mantenuto nascosto.
Paco
mi ha raccontato una storia, la sua storia, perché sentiva la
necessità di liberarsene, di lasciarla andare via e per questo scopo
aveva bisogno che ci fosse qualcuno disposto ad ascoltare il suo
racconto. Da troppo tempo lo ripeteva solamente a sé stesso ed era
giunto il momento, finalmente, di renderlo disponibile, di passare il
testimone a qualcun altro che non fosse lui stesso, di liberare la
mente dallo spazio occupato da quella storia, di raccontarla per
un'ultima volta.
Ho
raccolto il testimone affidatomi da Paco e ho deciso di scrivere ciò
che mi ha raccontato, di renderlo disponibile, di pubblicarlo, credo
che il significato più profondo da attribuire ad una storia sia
quello - personale - che ognuno di noi alla stessa può dare e
riconoscere, chi scrive non è altro che il tramite tra un racconto e
chi, il racconto, lo vive con gli occhi della propria anima.
Ho
interrogato spesso Paco a proposito del finale del suo racconto, mi
sembrava che rimanesse un po' troppo "sospeso", che
lasciasse spazio a letture diverse e che si distaccasse più del
dovuto da una realtà alla quale, bene o male, noi tutti veniamo
richiamati, prima o poi. Mi ha confessato che il bello della sua
storia consisteva proprio in questo, che il suo più grande desiderio
era quello di lasciare lo spazio ad una qualsiasi ulteriore
evoluzione possibile del racconto, che ognuno di noi, la sua storia,
se la scrive un po' come gli pare e che, quando non gli piace,
semplicemente la cambia trasformandola in una storia diversa.
Lasciandola
libera di andare, di volare leggera. Come una farfalla.
"Il
mio primo incontro con Nora avvenne quando eravamo ancora bambini,
nella sala d'aspetto del pediatra presso il quale i nostri genitori
ci avevano portato per le visite mediche richieste per l'iscrizione
al primo anno di scuola elementare, ai primi di settembre. Non ho un
ricordo preciso di Nora in quell'occasione, del suo aspetto fisico,
intendo, quello che mi colpì fu il suo cappottino, un loden verde
appeso nel portamantelli dell'ingresso dello studio medico, era
identico al mio. No, non proprio identico, la fodera era diversa,
quella del mio era scozzese rossa e quella del suo scozzese blu ma,
per il resto, erano proprio uguali, erano talmente uguali che quando
lei andò via scambiò il mio con il suo, se ne accorsero i miei
genitori al momento di farmelo indossare. Ci si dovette rivolgere al
medico per risalire all'indirizzo di Nora e, dopo un contatto
telefonico, per organizzare un incontro al fine di scambiare i
cappottini. L'incontro e lo scambio avvennero nel cortile del palazzo
dove viveva Nora con la sua famiglia, la mia mamma e la sua si
affrontarono al centro del cortile, si salutarono, barattarono i
loden ed ognuno ritornò da dove era venuto. Nemmeno si fosse
trattato di uno scambio di spie tra due potenze straniere in piena
guerra fredda.
Per
rivederla sarebbero dovuti passare più di dieci anni. Si era
all'inizio degli anni ottanta e in una città di provincia come la
nostra i centri di aggregazione per i ragazzi, soprattutto per gli
studenti, erano costituiti da locali autogestiti messi a disposizione
da associazioni di lavoratori che, in questo modo, tenevano i giovani
sotto controllo e al riparo dalle cattive compagnie. Erano anni in
cui se ci si voleva conoscere e parlare ci si doveva incontrare, non
c'erano alternative. E lo si faceva con entusiasmo, si aveva proprio
voglia di vedersi, di stare insieme, di confrontarsi guardandosi in
faccia, senza filtri o intermediari, quei locali autogestiti
diventavano una seconda casa dove passare tutto il tempo libero a
propria disposizione.
Un
pomeriggio d'autunno entrai in uno di quei circoli - fuori era già
buio - e la vidi, in piedi con la testa china su un tavolo a
disegnare un cartellone per una manifestazione studentesca. Era Nora,
sapevo che era lei, in una cittadina di provincia ci si conosce tutti
e quello che mi colpì, di lei, fu la cascata di riccioli biondi che
le cadeva sulle spalle. Se devo descriverla mi vengono in mente i
versi di una famosa canzone: "Bella, di una sua bellezza acerba,
bionda senza averne l'aria", perché Nora era proprio così,
bionda senza averne l'aria. E bella, davvero bella. Si
girò e mi guardò, mi sorrise e poi, dopo aver ricevuto un saluto da
parte mia, ritornò al suo lavoro. E io, dopo aver constatato che nel
locale non era presente nessuno dei miei abituali compagni, me ne
andai.
Negli
anni successivi non ci frequentammo se non sporadicamente, eravamo
iscritti a due scuole diverse, io all'istituto tecnico e lei al liceo
e le rare volte che ci incontravamo scambiavamo rapide occhiate e
poche parole di circostanza anche se, con il passare del tempo,
incominciavo ad osservarla con maggiore attenzione. La particolarità
che la contraddistingueva da tutte le altre ragazze era che Nora
rideva sempre e lo faceva con tutto il viso. Intendo dire che quando
scoppiava in una risata tutto rideva con lei, le labbra, i denti, il
naso, gli occhi, le orecchie, tutto, insomma, era davvero uno
spettacolo vederla ridere, si sarebbe rimasti ore a guardarla mentre
rideva e si avrebbe fatto qualsiasi cosa per farla continuare a
ridere.
Il
primo vero incontro avvenne in un pomeriggio di fine luglio, eravamo
stati invitati ad una festa di quartiere in un parco in periferia, ci
incontrammo e, in questa occasione, per la prima volta eravamo soli.
Ci guardammo, ci sorridemmo imbarazzati e ci innamorammo
perdutamente. Avvenne all'improvviso e simultaneamente, come se ci
fossimo messi d'accordo su quali fossero il luogo ed il momento
giusto per farlo. La presi per mano, la accompagnai ad un chiosco e
le offrii un gelato, fragola e limone, poi ci sedemmo su una panchina
e le feci la mia prima impacciata dichiarazione, il gelato le si
sciolse in mano e ridemmo tanto, forte e a lungo. Poi
camminammo senza meta, parlando di tutto e di niente fino a quando
non la accompagnai a casa e lì, davanti a casa, in quel cortile dove
tanti anni prima i nostri genitori si erano scambiati i cappottini
verdi, la baciai.
Quel
bacio, il nostro primo bacio fu il primo segno di un incastro
perfetto, le labbra di Nora fatte per essere appoggiate alle mie
labbra e per diventare una cosa sola, le nostre labbra, i nostri
baci. Da quel momento non avremmo smesso mai di baciarci e lo avremmo
fatto ogni volta che se ne fosse presentata l'occasione, avremmo
creato noi stessi i pretesti per scambiarci dei baci ovunque e in
qualsiasi momento. I nostri baci erano davvero qualcosa di sublime,
un gesto esteriore che accomunava due anime in una sola, la nostra
anima. Le nostre mani, quando le intrecciavamo, si incastravano
talmente bene che nessuno dei due riusciva a cogliere la differenza
tra la fine della propria e l'inizio di quella dell'altro, in quei
momenti eravamo davvero fatti di una sola sostanza, unica, la nostra
sostanza. E
in quel nostro primo bacio, la prima volta che affondai il mio viso
nel suo viso fui come segnato indelebilmente dal suo odore, un
profumo che ricordava vagamente fragranze orientali miste a quello
leggero delle primule che sbocciano spontaneamente nei campi a
primavera, un odore che, una volta che me lo misi addosso, non
riuscii più a smettere di indossare.
La
settimana successiva partimmo per una vacanza in tenda, io e lei da
soli. Viaggiammo in treno, in autobus, molto spesso a piedi, fu
l'occasione per incominciare a conoscersi, per stare insieme e fare
esperienze nuove, ci divertimmo molto e, spesso, ci scontrammo per
poi tornare a stare nuovamente bene insieme, ancora meglio di prima.
Incominciammo già da allora a fare progetti per il futuro, sognavamo
un lavoro, una casa, dei figli e ci promettemmo che tutte queste cose
le avremmo fatte insieme, che non ci saremmo lasciati mai, non
riuscivamo proprio a concepire, già allora, il fatto di doverci
separare anche solo per un istante.
Rientrati
a casa e ritornati alla vita di tutti i giorni facevamo di tutto per
passare più tempo possibile insieme, il pomeriggio, dopo la scuola e
nei fine settimana. Quando non riuscivamo a parlarci di persona
passavamo ore al telefono, a continuare conversazioni iniziate e
lasciate a metà oppure inventandoci un qualsiasi argomento pur di
sentire le nostre voci. Avevamo il bisogno di stare in contatto,
continuamente, di trovare un pretesto qualsiasi anche solo per
salutarci e per scambiare qualche parola.
Gli
anni più belli, gli ultimi anni di scuola, passarono così, insieme,
fino all'esame di maturità, all'uscita dal mondo della scuola e al
conseguente ingresso nel più complesso e impegnativo mondo del
lavoro. Nora incominciava a chiedere attenzioni che io non riuscivo a
cogliere, voleva provare a concretizzare i progetti che insieme
avevamo fatto e io, che ancora non mi sentivo pronto per dei passi
così impegnativi, temporeggiavo, trovavo scuse con le quali
rimandare ancora decisioni che lei voleva affrontare nell'immediato.
Sentivo che l'incantesimo stava per spezzarsi ma, nello stesso tempo,
facevo finta di niente confidando nel fatto che, se un futuro avremmo
dovuto avere, sarebbe stato insieme che lo avremmo avuto. Mi
sbagliavo.
Alla
fine di giugno, sei anni dopo il nostro primo incontro fummo invitati
ad una festa di compleanno a casa di un amico comune e Nora mi disse
di non passarla a prendere, ci saremmo visti direttamente sul posto.
Io arrivai per primo e, quando vidi entrare Nora, lei era in
compagnia di un ragazzo che non avevo mai visto e che, lei diceva,
era semplicemente un amico (seppi in seguito che Nora frequentava
Fabrizio - questo era il nome di quel ragazzo - da circa due mesi).
Nonostante l'imbarazzo da parte dei presenti la festa andò avanti
fino a notte fonda e, al momento di salutarci, Nora mi disse che
sarebbe andata via con lui. Provai a chiedere qualche spiegazione ma
mi vennero date risposte evasive anche se, ormai, avevo già capito
che cosa era successo e che cosa sarebbe successo in seguito.
Andarono via in auto ed io li seguii, una volta arrivati davanti a
casa di Nora vidi ciò che non avrei mai voluto vedere: nel posto
dove Nora ed io ci baciammo per la prima volta ora Nora stava
baciando un altro uomo. Quel luogo, sacro e inviolabile, era stato
profanato e aveva perso il suo valore ed il suo significato, e per
sempre.
Scappai
via pazzo di rabbia e di dolore, cercando un significato ad un gesto
così meschino e vile da parte di una ragazza alla quale avevo
dedicato tanti anni e tutto me stesso, chiedendomi se questo era il
prezzo da pagare per non essermi sentito ancora all'altezza di
decisioni che, al momento, sentivo più grandi di me. Non volli più
vedere nessuno per settimane, mesi, passavo il mio tempo libero da
solo, steso sul letto a guardare il soffitto e a pensare a Nora, a
quanto ancora la amavo nonostante ciò che mi aveva fatto. Mi ci
volle più di un anno per riuscire a prendere nuovamente in
considerazione l'idea di avere una vita affettiva che andasse oltre
Nora e a tutto ciò che lei aveva rappresentato per me.
Passarono
gli anni, nel tempo lasciatomi libero dal mio lavoro coltivai nuove
amicizie e relazioni affettive ma continuavo a vedere Nora ovunque,
in tutto ciò che mi circondava. Mi capitava spesso di innamorarmi di
donne che, anche solo lontanamente, me la riportavano alla memoria, a
volte bastava davvero poco, un sorriso, un gesto, un movimento, un
modo di camminare. Ci vollero davvero molti anni affinché, un poco
alla volta, il ricordo di Nora si stemperasse, il dolore provato in
quella sera di fine giugno si attenuasse e i bei ricordi prendessero
il sopravvento ed offuscassero quasi completamente quelli brutti che
tanto dolore avevano causato.
Riuscii
a rimettere insieme la mia vita, a farmi una famiglia, ad avere dei
figli, a conquistare tutto ciò che tanti anni prima avevo progettato
insieme a Nora e ad ottenere tutto ciò da una donna, mia moglie, che
nonostante avesse fatto di tutto per essere una compagna preziosa e
fedele, in tanti anni non riuscì mai, suo malgrado, a regalarmi
anche solo un attimo della immensa felicità che avevo vissuto con
Nora.
Un sabato mattina di fine estate girovagavo in mezzo alle bancarelle di un mercatino dell'usato in cerca di libri da acquistare a poco prezzo, mi muovevo più irrequieto del solito, forse a causa del gran caldo che aveva colpito la città negli ultimi giorni di agosto, tra i tavoli ricoperti da volumi e riviste e, mentre sfogliavo una vecchia edizione di un romanzo di uno scrittore irlandese, ad un tratto, percepii qualcosa di familiare. Ebbi come un sussulto, come se un meccanismo rimasto fermo per tanto tempo si fosse rimesso in moto tutto d'un tratto, lasciai andare il libro, sollevai la testa, tirai su con il naso e la sentii. Avvertii una specie di capogiro, mi appoggiai al banco che stava davanti a me e poi incominciai a guardarmi intorno alla ricerca di quell'odore. La stavo respirando, la sentivo mentre stava entrando nuovamente dentro di me, quell'odore, il suo odore lo avrei riconosciuto in mezzo a milioni, non potevo sbagliare, era lei. Incominciai a cercarla, con gli occhi, questa volta, ma non riuscivo a capire quale fosse la provenienza di ciò che solo tramite l'olfatto stavo sentendo. Mi lasciai guidare dal suo odore, Nora era lì, a pochi passi da me, ne ero convinto, feci qualche passo alla mia sinistra e fu allora che la vidi, nascosta da un appendiabiti su ruote, di quelli che si usano nei mercati per mostrare i vestiti in vendita. Stava guardando i vestiti uno ad uno in cerca, probabilmente, di qualcosa di interessante da acquistare ed aveva un'aria insieme assorta e distratta, come se ciò che stava facendo in quel momento non fosse che un modo come un altro per far passare il tempo. "Bella, di una sua bellezza acerba, bionda senza averne l'aria, quasi triste come i fiori e l'erba di scarpata ferroviaria". La chiamai, prima quasi sottovoce e poi un po' più forte fino a farmi sentire, lei girò la testa, mi guardò e mi sorrise, e lo fece con tutto il viso, come tanti anni prima. Erano passati più di vent'anni.
Ci
avvicinammo, ci salutammo e scambiammo qualche parola di circostanza,
le solite parole, quelle che due persone che non sono felici dicono
per far credere di esserlo, che ripetono a sé stesse da tanto tempo,
da talmente tanto tempo da crederci esse stesse, a quelle parole. Le
feci qualche domanda sulla sua vita e sul suo lavoro ma lei rispose
evasivamente dicendomi che era di fretta e che non poteva trattenersi
oltre ma che le avrebbe fatto piacere rivedermi, magari in un altro
momento, con più tempo a nostra disposizione. Ci scambiammo il
numero di telefono e ci salutammo, allontanandoci, lei si voltò e se
ne andò e io rimasi lì, a guardarla mentre camminava tra le
bancarelle del mercato, il trascorrere degli anni aveva lasciato su
di lei e su di me dei segni indelebili ma, nello stesso momento,
particolari minimi che ci contraddistinguono e che ci restituiscono
un'identità rimangono tali e quali, inalterati. Ci si riconosce
proprio grazie a tali minimi particolari, solo chi ha avuto
l'occasione di scoprirli e di viverli nel momento del loro massimo
splendore sa riconoscerli, e sempre, anche quando essi sono nascosti
tra le pieghe di un tempo perduto e dimenticato.
Passarono
diversi giorni prima che mi decidessi a chiamarla, mi interrogavo su
quale sarebbe potuto essere stato il risultato di un incontro con
Nora dopo tanti anni, era passata davvero tanta vita, troppa, forse,
per poter pensare di andare oltre, di provare anche solo ad
immaginare qualcosa che non fosse un semplice incontro nel quale due
persone che non si vedono da tanto tempo si raccontano ciò che in
quel tempo è accaduto. E poi, era giusto provare ad immaginare
qualcosa, pensare di stravolgere la propria vita - e quella degli
altri - sulla base di un semplice incontro che, in fondo, era stato
frutto del caso? O si doveva forse parlare di destino? E se sì, si
poteva forse ignorare il destino, far finta di niente ed andare
avanti, come se quell'incontro non fosse avvenuto, cancellare quel
numero di telefono e dimenticarsi che forse il destino, con
quell'incontro, aveva voluto dare un segno tangibile della sua
esistenza? E ancora, non sarebbe stata forse questa l'occasione a
lungo e invano invocata per trovare una risposta a tutte le domande
che mi ero posto nel corso degli ultimi vent'anni? O, piuttosto, il
nostro incontro non sarebbe stato altro che un pretesto per riportare
alla memoria situazioni che tanto dolore avevano causato e che per le
quali tanto tempo era stato impiegato per riuscire a scordare? A
domande rimaste per più di vent'anni senza risposta non si sarebbero
aggiunte forse altre domande alle quali dover rispondere?
Questi
gli interrogativi che mi ponevo, mentre prendevo il telefono e
iniziavo a comporre il numero che Nora mi aveva dato, e che non
smettevo di pormi mentre il telefono squillava e mentre aspettavo che
Nora mi rispondesse. Quando sentii la sua voce la mia mente ritornò
alle lunghe ore passate al telefono tanti anni prima, anche in questa
occasione la riconobbi, era la stessa voce che tante volte mi aveva
parlato e alla quale altrettante volte la mia voce si era rivolta.
Solo leggermente più roca, complici le innumerevoli sigarette fumate
nel corso di tanti anni ma, grazie a questa sua nuova caratteristica,
ancora più affascinante, sensuale. Rimanemmo un po' in silenzio,
ognuno di noi sentiva che l'altro cadeva in preda ad emozioni che una
comunicazione telefonica può nascondere, riuscivamo a lasciarci
andare completamente, sapevamo che la barriera che in quel momento ci
divideva serviva anche a questo, a darci una possibilità di difesa.
La commozione provata in quel momento così intimo faticò a
dissolversi e, quando finalmente riacquistammo il controllo delle
nostre emozioni, Nora mi disse che voleva rivedermi, tante cose erano
accadute in quegli anni e lei voleva, doveva raccontarmele.
Ci
demmo appuntamento per la settimana successiva, nel tardo pomeriggio
di martedì, in quel parco di periferia dove ci incontrammo per la
prima volta e dove io le feci la mia prima imbarazzata dichiarazione
d'amore. Quando io arrivai lei non c'era ancora e allora cercai la
panchina sulla quale eravamo seduti tanti anni prima, lei con il
gelato in mano ed io con le mie frasi confuse, mi sedetti e
l'aspettai. Non dovetti attendere molto, Nora arrivò poco dopo, io
mi alzai, lei mi si avvicinò e mi disse: "Scusami, Paco, è
tanto che aspetti?". "Non molto", le risposi, "poco
più di vent'anni".
Scoppiò
a ridere nella sua risata strepitosa, quella risata che la faceva
ridere con tutto il viso, la risata di una donna che è da tanti anni
che non ride e che non aspetta altro che un uomo le dica le parole
giuste per farla ridere così. E piangere, allo stesso tempo,
piangere dal ridere per aver ritrovato una felicità evocata, a volte
implorata per tanto, troppo tempo e che sembrava perduta per sempre.
Incominciammo
a raccontarci la nostra vita, rimanemmo seduti e poi ci alzammo e
camminammo per sederci nuovamente e per ricominciare a camminare,
senza meta. Le raccontai le mie avventure con le ragazze che avevo
incontrato, le parlai del mio lavoro, dell'incontro con la donna con
la quale dividevo la mia vita in quel momento, dei miei due figli,
del mio tempo libero. Lei mi disse di Fabrizio, si erano sposati
pochi anni dopo il loro incontro e, a causa del lavoro di lui, si
erano dovuti trasferire in un'altra città. Dal loro matrimonio era
nata una figlia, mi mostrò una sua fotografia e, in quella ragazza,
io rividi la ragazza dei miei vent'anni, la Nora che tanti anni prima
avevo conosciuto. Lei e Fabrizio si erano separati da due anni, la
loro non era stata una storia d'amore, lui non si era mai lasciato
coinvolgere, a causa del suo carattere freddo e calcolatore,
dall'onda dei sentimenti che invece aveva travolto lei. Nora era
ritornata a vivere con sua madre, il padre era mancato pochi anni
prima e lei aveva approfittato di quell'occasione per tagliare
definitivamente i ponti con Fabrizio e rientrare, insieme alla
figlia, nella città dove era nata.
Non
parlammo mai, in quel tardo pomeriggio di inizio settembre, di come
la nostra storia ebbe fine tanti anni prima. Solo una volta io la
guardai e le dissi, ammettendo per la prima volta le mie
responsabilità per non essere stato all'altezza delle sue
aspettative tanti anni prima, che mi dispiaceva, che ero davvero
dispiaciuto per ciò che era successo. Lei mi rispose: "Paco,
credimi, dispiace davvero anche a me, e non solo per quello che è
successo tra di noi ma anche per quello che tra di noi non è
accaduto."
La
riaccompagnai a casa, percorremmo le stesse strade di quella sera di
tanti anni prima e arrivammo finalmente in quel cortile, quel posto
nel quale non avevo mai più messo piede e che era stato testimone di
fatti apparentemente così comuni ma straordinariamente significativi
per la vita di due persone. Ci fermammo davanti all'ingresso di casa
sua, ci guardammo e ci sorridemmo senza dire una parola ma, nello
stesso tempo, dicendoci tutto ciò che per tutti quegli anni non ci
eravamo detti, che non avevamo avuto occasione di dirci, che ci
eravamo trasmessi solamente con i nostri pensieri. E allora capii, in
quel momento ebbi la netta sensazione che quel legame non si era mai
spezzato, che il filo che ci aveva uniti era ancora teso, che i nodi
che avevamo fatto tanti anni prima non si erano mai sciolti. Le presi
le mani, lei attendeva quel gesto da un momento che durava da più di
vent'anni, un gesto che per essere compiuto da parte mia aveva
bisogno necessariamente di quelle mani che si si incastravano così
perfettamente con le mie. Il calore della nostra pelle si trasformò
in un'energia che riuscimmo a riconoscere, era la stessa energia che
ci aveva accomunato da ragazzi e che adesso, in quell'atto di unione,
si rinnovava, più forte che mai.
Mi
avvicinai, appoggiai le mie labbra sulle sue e solamente in quel
gesto ritrovai, ritrovammo il senso di assoluto che esclusivamente
l'unione di due anime concepite e create per unirsi può dare, un
atto sublime che in un istante perfetto annulla lo spazio ed il tempo
e restituisce il giusto valore, l'unico, all'esistenza di due
persone, un solo momento di comunione che può dare un significato ad
anni di delusioni e di sofferenze.
Mentre
la baciavo, mentre eravamo persi in quell'attimo di incontro con noi
stessi e con il celestiale risultato del legame di due esistenze mi
venne in mente un gesto che ero solito fare quando, tanti anni prima,
la baciavo: aprii leggermente gli occhi e le osservai il viso, in
quel punto del collo appena sotto il piccolo lobo dell'orecchio, era
un punto particolarmente seducente che io mi soffermavo spesso ad
ammirare. Proprio in quel punto vidi un particolare che prima non
avevo notato, un piccolo tatuaggio, una farfalla con le ali aperte
colorate di blu e di viola, i nostri colori.
Sorrisi,
richiusi gli occhi, salii sul dorso di quella farfalla e, finalmente,
volai."
[luglio
29, 2016]
FRAMMENTI
DI MEMORIA
Era
seduto su una panca di legno scuro addossata ad una delle pareti. La
stanza era in penombra, solo la luce del tardo pomeriggio filtrava
ancora dall'unica finestra. Ultimamente preferiva l'oscurità alla
luce del giorno, aveva come l'impressione che il buio favorisse il
lento fluire dei suoi pensieri, che lo aiutasse a districarli l'uno
dall'altro, a renderli più chiari, netti, limpidi. Ad un tratto,
staccò la schiena dalla parete, appoggiò gli avambracci sulle gambe
e si prese le mani, le intrecciò l'una nell'altra. Con lo sguardo
fisso in avanti riportò alla mente tutta la scena, quella scena
avvenuta quasi due anni prima ma ancora così vivida nella sua
memoria.
Lei
era comodamente appoggiata al cuscino del grande divano di tessuto
grigio, le gambe accavallate, quasi rilassata, il viso leggermente
inclinato, gli occhi come due fessure lo scrutavano sornioni, le
strette labbra chiuse, la bocca contratta in una leggera smorfia
lasciava trasparire un misto di cattiveria e disprezzo.
La
sorella, invece, era seduta sul bordo del cuscino, le gambe strette,
i piedi nudi sul pavimento di legno, le mani molto ben curate
appoggiate sulle ginocchia, la schiena diritta in una posa quasi
aristocratica, le spalle sciolte, la testa alta sul lungo collo
sensuale, una folta chioma di capelli neri come il corvo, i grandi
occhi capaci di un odio atavico.
Lui,
in piedi davanti a loro, le ascoltava mentre loro si alternavano nel
rimproverargli i suoi errori, le sue mancanze, le sue disattenzioni
nei loro confronti, la sua meschinità. Si sarebbero aspettate molto
di più da lui, lo credevano un uomo capace di badare a sé stesso ed
alla propria famiglia, responsabile, adulto. Non avrebbero mai
creduto che lui si sarebbe comportato in modo così puerile,
infantile, che sarebbe stato così inadeguato nell'affrontare la
situazione che gli si era presentata davanti, non si sarebbero mai
immaginate che lui avrebbe agito con così poca determinazione,
affidabilità, sicurezza.
Quella
scena gli ritornava alla mente con regolarità, lo assaliva
improvvisamente e non lo lasciava fino a quando lui non riusciva a
disfarsene scacciandola brutalmente, a viva forza, quasi prendendola
tra le mani e scagliandola via, con rabbia e disperazione. Ma era
convinto che non se ne sarebbe mai liberato completamente, che ne
sarebbe sempre stato tormentato, che non gli sarebbe bastata tutta la
vita per rimpiazzarla con nuovi ricordi, emozioni, sensazioni.
Ora
sapeva perfettamente che tutto ciò che gli era stato detto non era
altro che un modo per riversargli addosso ansie, frustrazioni, sensi
di colpa e complessi di inferiorità che non gli appartenevano, ne
era certo, ma sapeva anche che, non avendo ormai più la possibilità
di confrontarsi, di misurarsi nuovamente con chi lo aveva usato a
quel modo abusando della sua semplicità e della sua ingenuità, non
avrebbe mai più potuto cancellare la pesante umiliazione subita quel
giorno. Abbassò lo sguardo fino ad incontrare il pavimento, respirò
a fondo, lentamente, socchiuse gli occhi come per mettere a fuoco
un'immagine che non riusciva a distinguere. Ormai gli era del tutto
chiara la propria condizione, gli era stata sottratta l'innocenza che
lo aveva sempre contraddistinto e che molto spesso lo aveva messo in
difficoltà di fronte alle cose della vita, la violenza che gli era
stata perpetrata quel giorno aveva lasciato dei segni così
indelebili nella sua coscienza che nulla avrebbe mai potuto
cancellare.
[luglio
22, 2016]
MICAELA
E PACO
a
Micaela, compagna di giochi e di miràdas
Micaela
era appoggiata alla sedia, il braccio posato stancamente sul tavolino
rotondo alla sua destra, l’altro abbandonato sulla gamba, la mano
aperta, il palmo sulla coscia. Risaltava sulla tovaglia rosso
carminio la pelle chiara illuminata dalla candela accesa sistemata
con cura accanto al posacenere dall’allampanato cameriere giusto
poche ore prima, quando la luce del tardo pomeriggio ancora entrava
dalle alte finestre, ora nascoste da ampi tendoni di un colore che
stava a metà tra il verde spento ed il giallo ocra. Intorno alla
sala erano disposti, a poca distanza l’uno dall’altro, una
dozzina di tavolini sistemati a ridosso delle pareti e con due sedie,
una per lato, occupate per lo più da donne di mezza età che
attendevano pazientemente di essere raggiunte da uno sguardo al quale
avrebbe seguito un cenno del capo da parte dell’uomo che le avrebbe
unite a sé e condotte, passo dopo passo, nel vortice del tango.
Non
aveva più le scarpe ai piedi, appoggiati l’uno sull’altro essi
erano il segno il più eloquente della sua stanchezza e della sua
prudenza, bisognava essere parsimoniosi nell’uso di un accessorio
così importante ma, allo stesso tempo, così fragile e delicato. Non
erano stati solo gli innumerevoli passi di danza ad indebolire quelle
graziose estremità, anche il tempo si era accanito inesorabile
contro di esse, lentamente e con cura le aveva accarezzate e rese
scarne, essenziali, dolcemente spigolose.
Vestita
di un nero vestito che le lasciava scoperte le spalle e il collo, che
arrivava appena a coprirle le ginocchia e attraverso il quale
trasparivano le sue forme eleganti e generose ella era come in
attesa, il viso appena rischiarato dalla debole luce che metteva in
risalto la sua espressione trasognata e distante, la sua bellezza
aristocratica, quasi stanca.
Paco
si avvicinò con passi lenti, leggeri, maestoso nel portamento, nei
gesti e nei segni che gli solcavano il viso, piccole smorfie di
impazienza e dubbio. Si lasciava trascinare dai suoni della cortina
verso quella donna che tante volte lo aveva fatto sognare, la sua
leggerezza nella danza. Si fermò a tre passi da lei, dalla sua
assenza e dalla sua dolce malinconia, esitante immobilità.
La
cortina terminò improvvisamente, come spesso accade, lasciando il
posto ad un vuoto colmato dal brusìo degli astanti e dal suono dei
tacchi che si preparavano per la tanda successiva, una manciata di
minuti di trasporto e di passione.
Paco
la guardò deciso, la sua mirada partì veloce, fulminea come la
freccia scoccata da un arciere che punta dritto al bersaglio, gli
occhi, il cuore.
Micaela
alzò la testa, colpita da quella mirada si riscosse dal suo torpore
e accusò il colpo, sorridendo quasi divertita. Si limitò ad un
cenno del capo, il gesto atteso dal ballerino che attendeva immobile
di fronte a lei e che stava a significare che avrebbe accettato
quella sfida, l'invito ad unirsi, per una volta ancora, nel turbine
della danza e, scalza, si alzò.
I
violini di d'Arienzo incominciarono a tessere la trama del canto, la
voce di Jorge Valdéz, organza e rayon del barrio, non si sarebbe
fatta attendere troppo a lungo.
Si
avvicinarono senza dirsi una parola, sguardi e sorrisi d'intesa
costituivano, in quel momento, la più alta espressione delle loro
coscienze, Paco e Micaela erano lì, per guardarsi, sorridere e
danzare.
Si
unirono nell'abbraccio, finalmente, e tutto prese forma e vita,
l'attesa che li aveva separati e il tempo che li aveva logorati,
appesantiti e annichiliti, in un istante si dileguarono, scomparvero
annientati dalla potenza di quell'abbraccio.
"Hasta
siempre, amor,
pasaràs
de otro brazo
y
dolerà el fracaso igual,
igual
que hoy"
Paco
inspirò profondamente, con tutto il peso del corpo sulla gamba
destra e la tensione concentrata sul petto diede il comando, il
primo, e partì in camminata sciolta, ampia e sontuosa, leggermente
in ritardo sul ritmo scandito dalla musica in quattro quarti.
In
quella camminata, e nelle poche, essenziali figure che conosceva,
aveva concentrato tutta l'essenza del tango, il suo più profondo
significato, la sua struggente ed inestinguibile malinconia, la sua
più profonda e atavica passione.
Micaela
questo lo sapeva bene, la sua era stata un'intuizione che aveva avuto
fin dalla prima volta che avevano danzato insieme e a lui si
abbandonava serenamente, sicura e protetta da quell'abbraccio,
dall'unione di due corpi in uno solo.
"Hasta
siempre, amor,
corazòn
como el mìo
que
compartìo tu
hastìo
no encontraràs"
Il
tango che li guidava in quell'amplesso era allo stesso tempo cornice
e quadro delle loro emozioni che nel tango si erano ritrovate e
riconosciute e che con il tango si moltiplicavano e si espandevano.
La ronda, tracciato ideale per quelle evoluzioni immaginifiche e
ideali, trasposizioni di uno stato d'animo comune, li conduceva
sicuri e leggeri al riparo delle tempeste delle loro imprescindibili
esistenze.